CALENDARIO IN PROGRAMMAZIONE
Raccolgo in questo volume i miei principali scritti degli ultimi tre anni.
La ragione di una simile raccolta è presto detta.
Gli scritti, seppur su temi diversi, hanno tutti un comune motivo conduttore, che è quello di denunciare come ingiuste, inutili, e in contrasto con i diritti dei singoli, le riforme che ormai da tempo si hanno in materia di giustizia civile.
Ripeto qui, fino alla noia, quanto ho già avuto modo di scrivere in più di una occasione.
La crisi del processo civile dipende, solo e soltanto, da una sproporzione tra la domanda di giustizia dei cittadini e l’offerta di giustizia dello Stato.
Lo Stato, in sostanza, non è in grado, in tempi ragionevoli, di dare adeguata risposta alla domanda di giustizia dei cittadini.
La risoluzione del problema, allora, anche ai sensi degli artt. 3, 24 e 97 Cost., dovrebbe essere quella di migliorare l’offerta di giustizia per adeguarla alla domanda.
Ma questa semplice cosa, poiché ha dei costi, non è mai stata fatta, e la tendenza di questi anni è stata invece quella di risolvere il problema non migliorando l’offerta bensì contraendo la domanda.
E’ di oggi il nuovo art. 348 bis c.p.c. inserito dal recentissimo art. 54 del d.l. 83 del 2012 in materia di appello.
E’ una riforma del tutto eguale alle precedenti, relativamente alla quale un processualista trova solo imbarazzo ad analizzarla nel merito.
E’ eguale alla riforma della l. 12 novembre 2011 n. 183, del d. lgs. 1 settembre 2011 n. 150, del d. lgs. 4 marzo 2010 n. 28, della l. 18 giugno 2009 n. 69, del d. lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, della l. 14 maggio 2005 n. 80, della l. 23 dicembre 1999 n. 488, del d. lgs. 19 febbraio 1998 n. 51, della l. 26 novembre 1990 n. 353.
Si fanno sempre e solo tre cose: o si contrae il diritto di agire in giudizio, o si aumentano i poteri del giudice, o si aumentano i tributi giudiziari e i rischi economici legati all’esercizio del diritto di azione.
Non si sa far altro!
Questo è il punto: finché si continuerà a vedere nella parte che introduce una causa non il soggetto che ha subito un torto e chiede l’intervento dello Stato per porre rimedio a quel torto, ma solo e semplicemente un rompiscatole da arginare, noi avremo soltanto riforme di questo genere, volte a risolvere in modo sommario e sbrigativo, quasi con fastidio, le istanze di giustizia dei cittadini.
Perché, se è pur vero che in alcuni casi l’attore è veramente un rompiscatole che pretestuosamente fa valere un diritto che non ha, in molti altri casi, direi nella normalità dei casi, è invece un soggetto che ha un problema, e che si rivolge allo Stato proprio perché spera che lo Stato gli risolva quel problema e gli renda giustizia.
E lo Stato, per tutti questi cittadini (e anche per tutti quelli che oggi, ormai, demoralizzati e demotivati, subiscono torti senza nemmeno più chiedere giustizia) non può avere l’atteggiamento del disinteresse e della superficialità, poiché se la regola dell’amministrazione della giustizia diventa quella della superficialità (seppur dovuta a scarsità di risorse e/o ad altre giustificazioni del genere), noi siamo alla fine dello Stato di diritto.
Non si tratta, allora, di criticare la singola riforma o la singola scelta di merito.
Si tratta piuttosto, e più significativamente, di criticare le ragioni e i metodi che sono state posti alla base, e continuano a porsi quale base, delle novelle che si sono avute.
A mio parere si tratta di voltar pagina, di immaginare riforme non repressive (tali sono quelle che limitano il diritto di azione e aumentano i poteri del giudice e i tributi giudiziari) bensì riorganizzative degli apparati della giustizia; riforme che incidano sull’offerta di giustizia, e non sulla domanda.
Ed inoltre il processo civile deve tornare a mettere al centro il cittadino e non lo Stato, la libertà e non l’autorità, il privato e non il pubblico.
E così come la sanità non può che esser vista dal punto di vista del malato e non del medico, e la scuola e l’università non possono che essere visti dal punto di vista dello scolaro e dello studente e non dell’insegnante, allo stesso modo la giustizia non può che esser vista dal punto di vista dell’utente, ovvero del cittadino, e non degli apparati.
Questa, credo, sia la strada da intraprendere, il cambio di mentalità.
Ma non è quello che è stato fatto in questi anni, e con queste riforme.
Da altra parte, deve dirsi che ha contribuito al formarsi della situazione esistente anche la crisi della classe forense.
Un tempo gli avvocati erano pochi, colti, stimati, benestanti.
Oggi soltanto una stretta minoranza degli avvocati ha mantenuto queste caratteristiche.
La classe forense, dilatata nel numero in modo assolutamente impressionabile e inaccettabile, non è più così una classe omogenea sotto nessun profilo.
Per questo, il rapporto giudice-avvocato è mutato, atteso che in molte circostanze il giudice non vede più nell’avvocato un valido interlocutore, ma piuttosto un azzeccagarbugli di manzoniana memoria, che rispetto a quell’azzeccagarbugli ha però oggi perduto ruolo sociale e reddito.
La crisi dell’avvocatura ha contribuito così a spostare il pendolo tra privato (parte-avvocato) e pubblico (giudice-istituzione) tutto a favore del pubblico, dando vita alle riforme che abbiamo avuto negli ultimi venti anni.
Per questo un buon numero degli scritti che seguono sono dedicati all’avvocatura e al rapporto giudice-avvocato, poiché i temi sono strettamente connessi tra loro.
In sostanza, per andare avanti, è necessario tornare indietro.
Dobbiamo chiedere a gran voce semplicemente la soppressione di tutte queste leggi, e dobbiamo chiedere a gran voce la riaffermazione dell’evidente principio secondo il quale lo Stato deve provvedere alla tutela dei diritti con regole precise e prefissate, e non in modo sommario e sbrigativo.
A questa idea sono dedicati gli scritti che ripubblico, e la loro ripubblicazione altro non vuol essere se non un modo per dare ulteriore forza a questa battaglia.
Isola d’Elba, 18 luglio 2012